DOMENICA DI PENTECOSTE 5 GIUGNO 2022

Commento al Vangelo

 di p. Alessandro Cortesi op

Pentecoste è festa del pellegrinaggio per Israele (Dt 16,16) e al momento in cui si raccolgono le messi è memoria del dono della legge. La grande scoperta nel cammino dell’esodo della vicinanza di Dio con la sua parola aveva segnato la fede del popolo in cerca di liberazione. Al momento della mietitura (Es 34,22; cfr Es 23,16) nella gioia per le primizie è da ricordare la Torah, legge come parola che orienta la vita, dono di alleanza dl Dio che benedice (Deut 16,9-10). La festa dei cinquanta giorni (Pentecoste) rinvia quindi all’esodo e alla pasqua; chiede che si contino i giorni (festa delle settimane) per coltivare il senso dell’attesa. Nella precarietà del presente indica un orizzonte di speranza. La memoria del dono della Torah è connessa alla Pasqua, quasi un prolungamento  della festa di Pesah.

Nel IV vangelo il dono dello spirito è posto nel quadro della sera del giorno di quella Pasqua in cui Gesù compì il suo dono fino alla fine. Gesù, dopo i giorni di Gerusalemme e della croce, si presenta in mezzo, soffia sui discepoli e dice: “Ricevete lo Spirito Santo’ (Gv 20,22). E’ racconto che richiama al grande messaggio del IV vangelo: nella sua morte Gesù ha donato lo Spirito  consegnandolo quale inizio nuovo di una storia di comunione (Gv 19,30).

Il dono dello Spirito sgorga dalla vita di Gesù, data per gli altri. Il soffio evoca una presenza non racchiudibile, una forza di rigenerazione e di vita: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8). L’alitare sui discepoli è ricordo di quel respiro che il racconto della creazione presenta come donato da Dio all’umanità plasmata dal fango e soffio di vita presente dentro al creato stesso. Il soffio di Dio è dentro alle cose e sta nella parola. Il soffio di Gesù è soffio creativo, apre all’esistere di una comunità nuova e a tutte e tutti è affidato il compito di portare riconciliazione, che significa responsabilità di costruire pace nella storia (Gv 20,23).

Nel racconto di Luca durante la festa di Pentecoste a Gerusalemme il dono dello Spirito è espresso con le immagini del vento, delle lingue e del fuoco. Il vento suggerisce l’apertura e la ricerca continua a cui la comunità è chiamata. Non dovrà rinchiudere lo spirito in sistemi religiosi e di potere umani. Lo Spirito suscita una comprensione nuova tra coloro che avvertono le sfumature della propria lingua nel parlare di altri: lo Spirito fa passare dalla chiusura e incomunicabilità al comunicare tra diversi, fa incontrare i linguaggi mantenendo la diversità, apre all’incontro possibile. Lo Spirito fuoco è forza che consuma, riscalda, illumina e genera possibilità nuove di vita.

Il dono dello Spirito si rinnova e chiama ad essere attenti cercatori della sua presenza che soffia dove vuole, travalica confini, spinge a guardare oltre. In un tempo di guerre e ripiegamenti di difesa e chiusura di fronte alle diversità lo Spirito soffia ancora ed attende di essere accolto quale soffio di vita che proviene dalla Pasqua di Gesù.

Profezia di pace

“Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo, e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria.
Dissipa le sue rughe. Fascia le ferite che l’egoismo sfrenato degli uomini ha tracciato sulla sua pelle. Mitiga con l’olio della tenerezza le arsure della sua crosta. Restituiscile il manto dell’antico splendore, che le nostre violenze le hanno strappato e riversa sulle carni inaridite anfore di profumo.
Permea tutte le cose, e possiedine il cuore. Facci percepire la tua dolente presenza nel gemito delle foreste divelte, nell’urlo dei mari inquinati, nel pianto dei torrenti inariditi, nella viscida desolazione delle spiagge di bitume.
Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati senza misura su tutte le nostre afflizioni. Librati ancora sul nostro vecchio mondo in pericolo. E il deserto, finalmente, ridiventerà giardino, e nel giardino fiorirà l’albero della giustizia, e frutto della giustizia sarà la pace”.

E’ questa una parte di una preghiera composta da don Tonino Bello testimone di pace da cui trovare orientamento in questi tempi che generano tanto spaesamento e spingono a conformarsi ai discorsi dominanti. Proprio in questi giorni per ricordare l’anniversario della Repubblica italiana nella festa del 2 giugno hanno sfilato in pompa magna i reparti dell’esercito, sono state mostrate le armi in un momento di scandaloso e rischioso riarmo di molti Paesi nel quadro internazionale segnato dalla guerra. Hanno sfilato per la prima volta anche i medici e infermieri e forse l’auspicio potrebbe essere che in futuro in questo giorno la sfilata a ricordo della Repubblica sia popolata da tutte le presenze che senza armi portano avanti quotidianamente la vita sociale e tengono insieme il tessuto di relazioni e di cura che è la spina dorsale di ogni convivenza.

Il riferimento a don Tonino è stato ripreso in un articolo di mons. Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi (Un’inutile strage, “Vita pastorale” 2 giugno 2022) in cui si denuncia la follia di un investimento nella spesa militare che ha raggunto cifre astronomiche di più di duemila miliardi di dollari, coinvolgendo anche l’Italia in tale direzione. E si ricordano appunto le parole «Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire, […] che la nonviolenza attiva è criterio di prassi cristiana, che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena […] se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali».

Il 30 aprile  1989 alla vigilia di un importante incontro ecumenico a Basilea Tonino Bello tenne uno storico discorso nell’Arena di Verona richiamando alla funzione dei credenti a suggerire proprio in virtù del riferimento al Dio di Gesù, non il Dio dei filosofi ma il Dio rivelatosi come dono, Altro e Oltre, le vie profetiche della pace, che implicano la nonviolenza e l’impegno responsabile senza alcuna assuefazione al male e all’ingiustizia, ma opponendo al male la. Vale la pena riascoltare quelle sue parole in questo tempo:

“(…) Il Dio di Gesù Cristo è diverso. Non viene dal basso. Ci è stato rivelato dall’alto. Non è frutto della carne e del sangue della nostra sapienza terrena. E’ un Dio garantito solo dalla nudità della nostra fede.
Non è un Dio a cui ci si aggrappa con i funambolismi della mente. Ma un Dio a cui ci si abbandona con la fiducia del cuore, dietro un richiamo che inesorabilmente ti precede. Attenzione! Non è che si voglia disprezzare la fatica della ricerca umana o che si intenda svilire l’importanza di un Dio trovato dagli sforzi del nostro pensiero. No! Quella della ricerca razionale di Dio è una fatica benedetta, che ogni cristiano deve compiere con tutti gli altri uomini che lo cercano con cuore sincero. Diciamo solo che questo Dio, dopo che l’abbiamo trovato, non ci appaga. Anzi, non ci si può chiamare neppure credenti per il semplice fatto di averlo raggiunto attraverso gli impervi sentieri del pensiero.

Il Dio vero, quello di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, quello rivelatoci da Gesù, è totalmente Altro ed è totalmente Oltre. E noi credenti, dopo aver condiviso la fatica del pensiero con tutti i ricercatori onesti, dobbiamo essere l’indice puntato verso questo totalmente Altro e totalmente Oltre. La pace del mondo e la pace di Gesù Cristo Ed eccoci al momento cruciale di questa seconda riflessione. Per la pace vale lo stesso discorso che si è fatto per Dio.
C’è una pace dei filosofi. E c’è una pace di Cristo. La prima è quella prodotta dai nostri sforzi diplomatici, costruita dai dosaggi delle cancellerie, frutto degli equilibri messi in atto dalle potenze terrene. Al punto che, se una sola condizione va in crisi, si rompe il giocattolo e ruzzola tutto intero il castello. La pace di Cristo, invece, è quella che non esige garanzie, che scavalca le coperture prudenziali, e che resiste anche quando crollano i puntelli del bilanciamento fondato sul calcolo. Questo è il senso profondo dell’espressione evangelica che proprio oggi è risuonata nella Messa: “vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come ve la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27).

Questo è il salto di qualità a cui ci provoca la frase divenuta ormai celebre di D. Bonhoeffer: “Osare la pace per fede”. Ci riempie di commozione un testo che questo grande testimone del Risorto scrisse nel 1934, e che è divenuto un monito per noi: “Una via alla pace che passi per la sicurezza non c’è. La pace infatti deve essere osata. E’ un grande rischio, e non si lascia mai e poi mai garantire. La pace è il contrario della garanzia. Esigere garanzie significa diffidare, e questa diffidenza genera di nuovo guerre. Cercare sicurezze significa volersi mettere al riparo. Pace significa affidarsi interamente al comandamento di Dio, non volere alcuna garanzia, ma porre nelle mani di Dio Onnipotente, in un atto di fede e di obbedienza, la storia dei popoli… Chi rivolgerà l’appello alla pace così che il mondo oda, che sia costretto a udire?… Solo la Santa Chiesa di Cristo può parlare in modo che il mondo, digrignando i denti, debba udire la parola della pace, e i popoli si rallegreranno perché questa Chiesa di Cristo toglie, nel nome di Cristo, le armi dalla mano dei suoi figli e vieta loro di fare La guerra e invoca la pace di Cristo sul mondo delirante”.

Carissimi amici, come per la ricerca di Dio abbiamo detto che non intendiamo svilire lo sforzo della fatica razionale, anzi la incoraggiamo e la sosteniamo, ma sentiamo anche il dovere di indicare il totalmente Oltre e il totalmente Altro di Dio, sulla base di ciò che Cristo ci ha rivelato di Lui, così per quanto riguarda il mistero della pace, col più grande rispetto per lo sforzo che il mondo laico sta compiendo, e con la gioia più grande nel vederci accomunati come credenti accanto a tanti camminatori di ogni fede, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo specifico, originale, coraggioso!

E il nostro contributo è quello di essere segno dell’inquietudine, richiamo del “non ancora”, stimolo dell’ulteriorità. Spina dell’inappagamento, insomma, conficcata nel fianco del mondo. Per una Chiesa coraggiosa e profetica
Riconosciamolo. Come Chiesa accusiamo ancora pesanti deficit di “parresia”. Siamo ancora fermi alla pace dei “filosofi”, e non ci decidiamo ad annunciare finalmente la pace dei “profeti”. Dovremmo essere indice puntato verso il totalmente “altro”, e verso il totalmente “oltre” gli isolotti raggiunti dalle minuscole asfittiche paci terrene, e invece siamo spesso prigionieri del calcolo, vestali del buon senso, guardiani della prudenza, sacerdoti dell’equilibrio.
E’ vero, sì, che i “profeti” debbono tenere conto delle lentezze con cui i “re” elaborano le mediazioni e le fanno camminare nella prassi quotidiana. E’ vero anche che devono accettare di vedersi sempre tra le mani eccedenze di annunci che non verranno mai canalizzare in scelte storiche concrete. Ma non tocca ai profeti operare riduzioni in scala.

E sarebbe ben triste che a provocare cadute di tensione, per quel che riguarda l’annuncio della pace, dovessero essere proprio loro. In certe comunità si densifica sistematicamente il sospetto. Si paventano strumentalizzazioni anche nelle scelte più generose a favore degli ultimi. Ogni occasione è buona per opporre, allo spirito delle intuizioni evangeliche di pace, il rigore della lettera che uccide. (…) Siamo arrivati al punto che, come cristiani, ci troviamo oggi nella necessità di dover recuperare i forti distacchi in tema di pace, che una moltitudine di non credenti ha inflitto a noi, titolari delle inesauribili riserve utopiche del Vangelo! La paura dell’olocausto nucleare ha fatto fare a loro più strada di quanta non ne abbiano fatta fare a noi la fede, la speranza, e l’amore. (…)”

Alessandro Cortesi op