Domenica 23 giugno 2022

XIII domenica tempo ordinario

COMMENTO

 di p. Alessandro Cortesi op

1 Re 19.16.19-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62

Eliseo è chiamato in modo inatteso a seguire il profeta Elia che su di lui getta il mantello in segno di scelta e invio. La sua vita cambia, il mantello che lo avvolge segna l’inizio di un cammino nuovo: sarà uomo di Dio non impaurito di fronte ai potenti e la sua missione di profeta si manterrà sotto la parola di Dio. Il mantello indica così una chiamata ed un invio. D’ora in poi Eliseo lascia il suo lavoro, la cura dei buoi e si pone al servizio di Elia divenendone discepolo. Alla morte del maestro Eliseo raccoglierà il suo mantello (2Re 2,13-14) e con esso aprirà ancora le acque, segno che la parola di Dio è fonte di liberazione per tutti, per chi si sente estraneo e lontano, oltre i confini (2Re cap. 5; cfr. Lc 4,27). Eliseo fu ‘uomo di Dio’ perché con i suoi gesti testimoniò che Dio è liberatore e vicino, un Dio diverso dalle logiche del potere umano. Quel mantello accolto su di sé apre la strada a rivivere il percorso di liberazione dell’esodo, opera di Dio, un percorso che è personale ed insieme collettivo e deve allargarsi a tutti.

La fede biblica è segnata dal cammino, nel deserto. Lì avviene la scoperta della presenza di Dio vicino, pellegrino e nomade con il suo popolo. Nel cammino si incontra Dio che spinge ad andare sempre oltre, ad aprirsi al futuro come suo dono. Le prime testimonianze parlano di Gesù come “colui che è passato facendo del bene…” (cfr. At 10,38). Il suo cammino non è solo esteriore ma interiore: sulla strada Gesù incontra, dialoga, e coinvolge nel suo itinerario. La strada verso Gerusalemme è esperienza importante della vita di Gesù. Luca riporta che ad un certo punto Gesù ‘fece il viso duro’ e si diresse verso Gerusalemme: è un momento di scelta e di decisione non facile. Gesù si dirige verso la città del potere religioso dove incontrerà il rifiuto e l’ostilità nell’acuirsi del conflitto contro di lui. Si dirige verso la città sede del tempio e della classe sacerdotale: lì vivrà la passione e subirà l’ingiusta condanna. Gesù si dirige ad affrontare lo scontro con il potere politico e religioso che si sentono minacciati dalla sua predicazione inerme. Gerusalemme è tuttavia anche il luogo della risurrezione, del dono di vita nuova, dell’inizio del cammino della comunità. La strada indica la chiamata di Gesù e quella dei discepoli che lo seguono: sono chiamata a condividere la sua vita, a generare una convivenza di pace.

Sulla strada varie persone chiedono a Gesù di seguirlo ed egli stesso rivolge l’invito ad alcuni con la parola: ‘seguimi’. Nei brevi dialoghi di questo brano sta al centro la questione del seguire Gesù. L’intera esperienza dei cristiani può essere sintetizzata nel ‘seguire’. Non si tratta di un percorso di conoscenza e nemmeno di praticare una regola di comportamento: seguire è anche tutto ma ben di più e richiede disponibilità a lasciarsi coinvolgere in un incontro e a praticare scelte libere. Ad ogni passo incontra rischi, sfide, imprevisti, esige creatività, impegno e lotta per andare avanti. Seguire Gesù sulla sua strada implica soprattutto una condivisione di vita ed entrare in un rapporto personale. Gesù chiama a seguirlo con urgenza e con una sorprendente radicalità. Chi è chiamato è posto di fronte ad una urgenza: l’apertura al futuro non lascia spazio a nostalgie del passato. Si tratta di condividere la sua precarietà rinunciando a ‘tane sicure’ o nidi protetti. E’ chiamata ad una vita che non può lasciarsi imprigionare dalla morte: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. E’ richiesta una dedizione senza riserve: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. L’immagine dell’aratro richiama a scelte orientate ad un futuro con dedizione e alla fiducia verso Gesù. L’aratro rivolge le pesanti zolle della terra; la sua opera sta nel rendere la terra accogliente per il seme del vangelo quale dono per la vita di tutti.

Alessandro Cortesi op

Lasciar pacificare il cuore

“si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio”.

“Si voltò e li rimproverò”. Dietro a questo rimprovero di Gesù non c’è solo una reazione ad una logica di violenza – quella del fuoco dal cielo invocata dai discepoli combattivi ‘figli del tuono’ – ma è da leggere anche una proposta alternativa sul modo di intendere i rapporti. Gesù si oppone a chi intende usare i mezzi della violenza per contrastare ed eliminare il nemico che ha assunto attitudini ostili e di rifiuto.

Ma la sua proposta va oltre ed apre orizzonti nuovi. Il suo orientamento delinea la scelta di stare nell’obbedienza a Dio nella condivisione piena del cammino umano. Si immerge pienamente in una storia manifestando un capovolgimento del modo di intendere la vita umana come autoaffermazione. Gesù obbedisce al disegno del Padre nel camminare verso Gerusalemme, nella sua scelta di intendere la vita in modo diverso dalla pretesa di Adamo che si pone in senso padronale e sceglie invece la linea del servizio e dell’apertura all’altro nella ricerca di quella luce di vita che è presente in ognuno.

“L’amore di Dio si è manifestato in questo, nell’aver amato l’uomo quando l’uomo era suo nemico. In Gesù è avvenuto il riavvicinamento dell’umanità a Dio, in modo tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, l’ultima parola non sarà il no dell’uomo, ma il sì di Dio. Dio dona all’uomo un cuore di carne (Ezechiele), che Paolo chiama spirito: lo spirito è la soggettività di Dio che diventa soggettività dell’uomo, capacità di vivere la storia secondo la vocazione originaria”. (Armido Rizzi, Conferenza – Per una teologia della pace, 1987)

Soggiace al rimprovero di Gesù l’invito ad un capovolgimento di sguardo ed una proposta di intendere in modo diverso il rapporto con l’altro: si apre la fatica a come coltivare una attitudine di rapporti nuovi, anche con il nemico, anche con il violento, seguendo la via tracciata da Lui, assumendo lo stile di un passaggio, dalla logica della vendetta e della ritorsione alla scelta decisa di impostare in modo nuovo le relazioni.

“ci occorre una ermeneutica della differenza, che insegni a comprendere ciò che è diverso, senza incasellarlo nei nostri schemi, che offra aiuti pratici per esercitare la vicinanza del vivere insieme e nello stesso tempo assicuri la giusta distanza, che rispetta l’identità dello straniero e assicura a noi tutti la comune dignità umana” (T. Sundermeier, Comprendere lo straniero, Queriniana, 12)

Il cambiamento che si rende urgente implica un movimento che attui il far venir meno di una mentalità di superiorità, di pretesa di possesso della verità, ed apra ad un modo di concepire la vita come cammino verso un bene ancora da scoprire e da attuare. Il cammino che si pare è la costruzione di una relazionalità in cui l’essere insieme – l’ ‘essere con’ gli altri – non sia una aggiunta ad una situazione dell’io come dato stabile e chiuso con pretese di potenza, ma un percorso essenziale al vivere stesso. La pretesa di un io padronale è radice della costruzione dell’altro come nemico e questa attitudine vede il rimprovero di Gesù che indica un modo nuovo di intendere la vita stessa.

“Il gesto fondatore del cuore costruttore di pace è un cuore che consente di lasciarsi pacificare dentro di sé, di accettare di spogliarsi del cuore padronale, del soggetto di diritti. Nel cuore padronale c’è la violenza originaria di chi già in cuor suo ha costituito l’altro come nemico e quindi come legittimamente aggredibile. Dobbiamo abbattere dentro di noi il gesto fondatore dell’altro come nemico. Può darsi che effettivamente l’altro sia nemico, ma ciò di cui dobbiamo spogliarci è il cuore padronale che non tiene conto di ciò che realmente l’altro è. Occorre rifarci uno sguardo capace di vedere le cose come sono” (Armido Rizzi, ibid.)

Non è facile tutto questo: se da un lato l’esigenza di spogliarsi da un cuore padronale apre una nuova via dall’altro proprio la scelta della nonviolenza si deve attuare sempre all’interno di concrete situazioni storiche in cui la ricercava condotta nella valutazione dei passi possibili, dei modi concreti che conducano al superamento della violenza, al cessare l’uso delle armi, ad instaurare processi di pace, accettando la precarietà e la complessità delle situazioni. La mediazione implica ricerca di limitare al massimo fino ad eliminare ogni violenza e va compiuta nella considerazione del momento storico che viviamo. Oggi sono a disposizione strumenti per fare la guerra che nella storia mai si erano visti con potenza così devastante. Inoltre dopo Hiroshima e dopo l’orrore di Auschwitz una nuova comprensione è maturata nell’umanità riguardo alle dimensioni di male che risiedono nel cuore dell’uomo e alle possibilità di escalation dei conflitti. E’ questo il momento di ribadire con forza che non solo l’uso ma anche la produzione e il commercio di armi sono da condannare come processi che producono morte e sofferenza. I mezzi oggi a disposizione comportano il rischio dell’eliminazione dell’umanità e della distruzione del creato. A partire dalle vittime e dall’ascolto del grido di sofferenza è possibile costruire vie di pace.

Alessandro Cortesi op